Quindi, dove eravamo rimasti?

Quindi, dove eravamo rimasti? Eravamo rimasti ad una partenza imminente, una meta da conquistare e due bagagli da trenta chili colmi di sogni da realizzare.

I miei primi tre mesi e mezzo a Londra sono stati una doccia continua di esperienze e di sensazioni anche discordanti: per un certo verso è avvenuto tutto così in fretta e in maniera così coinvolgente che, ora che sono tornato per le feste, mi sembra di non essere mai partito. Eppure tre mesi e mezzo sono volati, e mi accorgo di essere quasi a metà di questa straordinaria avventura. Perché i primi mesi in terra londinese questo hanno significato per me: una girandola di emozioni, perlopiù positive, che mi ha pervaso da settembre fino ad ora.

Certo i primi momenti non sono stati per niente facili: continuo a dire che la notte prima della partenza, quella del 10 settembre, dovrebbe essere scritturata da un regista thriller. Non è nemmeno lontanamente spiegabile la sensazione di lasciare la propria città per la prima volta ed è incredibilmente pauroso cercare di dormire con 1298 domande che ti affollano la mente. Ma vivere quella notte è stato incredibile ed è il primo lieto ricordo del mio viaggio.

Il momento più duro, unitamente ai saluti all’aeroporto, è stato certamente l’arrivo in stanza a Butler’s Wharf: una stanza claustrofobica e completamente anonima, in un appartamento vuoto e polveroso, in un complesso freddo e con un considerevole numero di asiatici (conosciuti per l’essere non molto espansivi con gli estranei…). Un autentico incubo.

Dalla settimana seguente, tutto cambiò radicalmente: arrivarono centinaia di studenti provenienti da ogni parte del mondo, abbellii la mia camera con tonnellate di poster e foto, iniziai a prendere le misure con una città paragonabile a poche altre nel mondo per grandezza, importanza e portata storica. Il tutto, unito all’inizio delle lezioni e dei ritmi universitari, mi ha fatto sentire subito parte di qualcosa. Anche se ancora non sapevo cosa.

Settembre e ottobre sono stati i mesi dell’ambientamento, quello duro, quello passato ogni giorno a partecipare a career day, a frequentare lezioni con metodi di insegnamento completamente diversi da quelli italiani, con compagni di classe che sembravano provenire non da lauree triennali ma da corsi avanzati di finanza. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua e sentivo che dovevo lavorare molto più degli altri per riuscire a stare con loro e a competere sul mondo del lavoro. Per fortuna nelle settimane seguenti tutto è andato per il meglio: ai segnali di ripresa sono seguiti anche i primissimi soddisfacenti risultati accademici, anche se aspettare la sessione estiva per chiudere il cerchio sarà molto difficile, soprattutto a livello emozionale.

Ciò che in assoluto mi ha riempito maggiormente il cuore in questo periodo è stata senza dubbio la conoscenza approfondita di persone che sono subito diventate parte della mia vita. È capitato spesso di riunirsi nell’area comune del dormitorio a parlare fino a notte fonda di esperienze e stati d’animo con persone aventi storie completamente diverse dalla mia, provenienti da ogni minuscolo angolo del mondo, e studenti di master diversissimi dal mio. Se qualcuno mi avesse detto che quando sarei tornato in Italia per le feste avrei sentito la mancanza di tutto quello che lasciavo, probabilmente non ci avrei creduto. Il “qualcosa” di cui parlavo qualche riga più sopra, forse, non è nient’altro che una famiglia; una famiglia multiculturale e multietnica da me scelta, con tanto di pranzi e cene in condivisione, fiumi di birra bevuti e risate incontrollabili da condividere. E la lontananza dai miei veri genitori e dalla mia vera sorella, d’un tratto, è diventato un problema trascurabile.

Termino di scrivere queste righe da Malpensa, aspettando l’aereo che mi riporti a Londra; ancora ricordo con estremo piacere il lavoro fatto con Amanda riguardo le sub-personalità e la gestione delle emozioni sul terreno di gioco. Il motto che ci eravamo inventati per volgere in positivo l’ansia e i pensieri negativi, in campo come nella vita quotidiana, era “intendo perdonarmi”. Mi sembrano lontanissimi quei momenti, soprattutto perché mi sento una persona completamente diversa, ma l’augurio che mi faccio rimane lo stesso: continuare a perdonarmi, anche quando termineranno le sensazioni positive, quando sarà difficile, quando autocommiserarsi potrà essere la scelta più semplice.

Francesco Bucciaglia

Leggi il precedente articolo di Francesco Bucciaglia: “Bucciboy”

Author: Tennis Olistico

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