Self Handicapping

Il concetto di Sé ingloba credenze di svariato genere tra le quali hanno particolare rilievo quelle di tipo auto-valutativo, dato che la persona, in qualità di agente cognitivo, si muove soprattutto in base a contenuti mentali come le credenze e gli scopi. Tutti noi elaboriamo di continuo valutazioni sulla realtà che ci circonda e su noi stessi in modo particolare. In questa  attività di autovalutazione possiamo individuare uno scopo puramente conoscitivo, relativo al fatto di sapere se e quanto valiamo e uno scopo dell’autostima, relativo al fatto di sapere che valiamo, che siamo come ci piacerebbe essere.

Ognuno di noi sente il bisogno di conoscere il proprio valore, di verificarlo. Tuttavia un “vizio cognitivo” spesso colpisce tali verifiche: il self-handicapping. Berglas e Jones (1978) furono i primi ricercatori a parlare di self-handicapping, definendolo una “strategia di presentazione volta alla protezione del Sé e della propria autostima”. Secondo questi autori, grazie al self-handicapping una persona crea, a monte, le condizioni per poter imputare un possibile fallimento o insuccesso a cause esterne o un possibile successo a cause interne.

Un atleta che si presenti ad una gara come ammalato se dovesse perdere una partita non intaccherebbe la sua autostima e nessuno potrebbe giudicarlo negativamente, perchè “era malato”. Nel caso in cui dovesse riuscire ad ottenere un successo potrebbe affermare di essere veramente forte e in tal caso avrebbe l’occasione di sentirsi fiero e pieno di sè, forse anche più di quanto in realtà varrebbe. Ricorrere a scuse, crearsi degli ostacoli nel presentarsi ad una gara consente il preservare o migliorare la propria immagine. In ambito sportivo l’impiego di tali strategie è particolarmente pregnante in ambiti connotati da elevata competitività.

È interessante notare come si ricorre al self handicapping solo quando ci si trova a dover svolgere compiti di media difficoltà. Infatti se i compiti sono estremamente difficili si ha già una scusa e se invece sono facili e non c’è quindi minaccia di insuccesso, ci si dedica tranquillamente al lavoro da svolgere. In quest’ottica anche i fallimenti altrui costituiscono un ottimo appiglio per difendere la propria autostima. La scelta degli altri con cui confrontarsi dipende ovviamente dagli scopi che il confronto ha. Quando la motivazione del confronto è una migliore conoscenza di sé e quando non sentiamo la nostra autostima minacciata  allora scegliamo persone considerate migliori di noi. Se al contrario ci troviamo in una situazione in cui la nostra autostima è in pericolo, allora cerchiamo di trarre conforto attraverso il paragone con chi sta peggio di noi.

Julio Velasco, fra i coach sportivi che hanno ottenuto più risultati nella storia della pallavolo definisce questo fenomeno “la cultura dell’alibi” e spiega in una visione olistica dell’uomo che la vita è un’alternanza fra vittorie e sconfitte e che si può fallire un obiettivo senza necessariamente essere perdenti. Affrontare l’insuccesso al riparo dalla cultura dell’alibi rappresenta il più grosso ostacolo al miglioramento delle nostre prestazioni e di noi stessi.

 

“Non c’è niente da fare: la prima vittoria è Vincere contro noi stessi … Vincere i nostri difetti ...

Il secondo passo è Vincere contro le difficoltà …

Il terzo livello di vittoria è Vincere contro gli avversari …”

(Velasco, 1995)

Loredana Lovisetto

Psicologa – Psicoterapeuta – Primo Livello Reiki

Author: Tennis Olistico

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